Una delle accuse più gravi che vengono mosse alla plastica è di avere irrimediabilmente inquinato le acque dei mari e degli oceani. Su tutti i mezzi di comunicazione abbiamo visto isole di rifiuti di plastica galleggiare negli oceani e spiagge deturpate da ogni genere di spazzatura. Immagini certamente inquietanti che impongono una riflessione e azioni riparatrici. La prima domanda a cui rispondere è “da dove vengono tutti questi rifiuti?” La risposta non è complicata: gran parte degli elementi inquinanti che finiscono nei mari è trasportato dai fiumi.
È tuttavia dimostrato che il 90% dei rifiuti marini sono attribuibili a 10 grandi fiumi, tutti extra europei, per lo più asiatici. Questo non esonera l’Europa e l’Italia dal ricercare soluzioni che impediscano ai rifiuti finiti nei corsi d’acqua di riversarsi nei mari. Nel nostro Paese si contano vari progetti, avviati anche da startup, di barriere per il recupero di solidi galleggianti nei fiumi e di raccolta rifiuti galleggianti e semisommersi nel mare. L’operazione Mare Pulito, voluta dal Ministero dell’ambiente ne è un chiaro esempio.
La presenza delle microplastiche nel fiume Po non è critica
Un altro problema oggetto di controlli e verifiche è quello delle microplastiche. Su questo tema sono interessanti i risultati della sperimentazione scientifica Manta River di campionamento delle microplastiche del Fiume Po, condotta dall’Autorità Distrettuale del Fiume Po in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma, Arpa Daphne e AIPo (sintesi scaricabile QUI) che evidenzia come la situazione nel principale fiume italiano non sia critica.
Sul totale dei materiali raccolti emerge un 22% di materiali industriali da imballaggio, un 10% provenienti da sorgenti civili e un 56% originato da scarichi di depuratori, pesca, rifiuti di origine civile, sanitaria o agricola.
Molto interessante anche la comparazione dell’acqua del Po con le ricerche effettuate sui grandi fiumi mondiali ed europei: il numero su unità di volume di microplastiche nel Po oscilla tra il 2,06 e l’8,22, mentre nella Senna in Francia è tra il 9,6 e il 63,9 (ricerca 2019 Alligant), Oujiang, Minjiang in Cina tra 100-4100 (ricerca Zhao 2019), il Tamigi in Gran Bretagna si attesta su valori di 14,2-24,8 (ricerca Rowley 2020), Clyde, Bega e Hunter estuary in Australia 98-1032 (ricerca Hitchcock & Mitrovic 2019). Oltre a dimostrare che la situazione italiana è migliore rispetto ad altri paesi, da questa ricerca emerge anche che le microplastiche non sono solo plastiche.
Le microfibre naturali sono una quota prevalente delle cosiddette microplastiche
C’è un altro aspetto molto importante, riportato dall’American Association for the Advancement of Science che riguarda le microfibre, tradizionalmente ascritte alla famiglia delle microplastiche basandosi sull’assunto che le fibre derivino largamente da tessuti sintetici. Ricerche su 916 campioni di acqua marina raccolti in sei oceani dimostrano che, nonostante i polimeri sintetici rappresentino due terzi della produzione globale di fibre, quelle trovate negli oceani sono soprattutto naturali. Su 2000 fibre soltanto l’8,2% è risultato sintetico, contro il 79,5% di fibre cellulosiche e il 12,3% di origine animale.
Sono quindi in larga parte microfibre di cotone, viscosa, iuta, lino, lana, seta che finiscono nei mari dalle acque di lavaggio degli abiti. Si calcola che ogni abito rilasci 107 per ogni lavaggio. Ne consegue un paradosso: gli studi sull’inquinamento marino da microplastica riguardano prevalentemente particelle di fibre naturali.
L’abbandono dei rifiuti è un fenomeno molto diffuso in tutto il mondo, ma i problemi che sta provocando a livello globale chiama a un atteggiamento di responsabilità da parte pubblica, di istituzioni, enti, organismi tecnici, ma anche da parte dei singoli cittadini che hanno un ruolo chiave nella soluzione del problema.